di Angelica T.
Era una stupenda mattina nella città di Allegropoli e, alle sette in punto, la signora Marcella Pettegolezzi stava accompagnando suo figlio Marco Forzutelli a scuola, mentre lo sgridava, gli urlava e lo insultava a più non posso e non si era nemmeno accorta che, facendo tutto quel gran chiasso, stava risvegliando l’intero quartiere. Così la gente che si svegliava apriva le finestre e iniziava a sua volta ad urlare contro la signora Pettegolezzi e una stupenda mattina si trasformava come al solito nel caos più totale.
Arrivato a scuola, Marco Forzutelli, iniziò subito a sollevare qualche sedia dell’aula e a spaccarla in due parti uguali, pur sapendo che poi nessuno le avrebbe gettate e sarebbero rimaste lì per almeno una settimana. Intanto, la signora Pettegolezzi dopo aver lasciato il figlio a scuola, se ne andò a spifferare qualche pettegolezzo alla signora Zoe Ansiucci che, anche se era maggio inoltrato, aveva ricoperto suo figlio con cappotti pesanti e cappelli, sciarpe e guanti di lana che aveva rubato in un negozio per paura che il figlio prendesse freddo. Tutti i bambini della sezione “G”, alle otto e mezza precise, si trovavano nella classe, tranne il bambino Roberto Ritarducci che non aveva assolutamente voglia di andare a scuola e, quindi, era rimasto a casa sdraiato sul divano a guardare la televisione. All’improvviso entrò in classe la professoressa Irina Infuriatelli, senza salutare, borbottando, col broncio e sbattendo tuti i suoi libri sulla cattedra. Poi urlando disse: “Silenziooo!”, ma i bambini non la ascoltarono e continuarono a parlare fra di loro e a comportarsi male.
Così l’ insegnante iniziò a sbattere i piedi per terra, a “tamburellare” sul tavolo con le mani ed a frignare, proprio come una bambina di cinque anni in preda alla rabbia, perché non le hanno dato ciò che desiderava; successivamente, si alzò in piedi, prese la sua Borsetta e uscì dall’ aula cinque minuti, poi rientrò e vide i bambini continuare a far chiasso, così riuscì un’ altra volta dall’aula, poi rientrò… e andò avanti così per tutta la prima ora, finché non arrivò il momento di andarsene a casa a non fare un bel niente. L’ora dopo entrò in classe il professor Rossi, l’unico a rispettare le regole in quella scuola, ma anche il più fifone. Quel giorno avrebbe distribuito la verifica di scienze e aveva paura della solita reazione dei suoi alunni: ogni volta, infatti, questi, appena ricevuto il foglio, iniziavano ad urlare come delle scimmie in uno zoo e con la verifica ognuno di loro ci costruiva un aeroplanino di carta e cominciava a tirarlo verso il compagno dall’altra parte dell’aula. Quella mattina, però, stranamente, quando il professor Rossi entrò in classe, si trovavano tutti in silenzio e ognuno al proprio banco e, quando videro entrare il professore, lo salutarono con gentilezza. In realtà, tutto ciò era solo un trucchetto per addolcire l’insegnante e fare qualcosa che, nelle scuole in regola, è assolutamente vietato; infatti, durante la verifica i bambini sembravano degli angioletti, ma in verità c’era chi stava copiando dal proprio cellulare che teneva appoggiato sulle gambe; chi, prima di venire a scuola, si era fatto aiutare dai genitori a ricopiare dei bigliettini con le risposte e chi aveva direttamente il libro sul banco e copiava senza che il professor Rossi lo vedesse.
Alla fine della seconda ora, i bambini iniziarono la ricreazione nel modo più caotico possibile; infatti, sembravano una mandria di cinghiali in lotta fra loro e, se solo tentavi di infilarti in quel caos, nessuno avrebbe potuto dire con certezza se saresti riuscito ad uscirne vivo. I bambini si insultavano, si lanciavano oggetti e si picchiavano; addirittura Asia Antipaticucci e Irene Insopportarelli, che erano migliori amiche da quando avevano quattro anni, erano riuscite a litigare perché, mentre si descrivevano i vestiti che avevano comprato il giorno prima in uno stupendo negozio, avevano scoperto che erano gli stessi indumenti e avevano iniziato ad urlare dicendosi: “Mi hai copiato, strega!” “Non è vero sei tu che mi hai copiato, tonta!” E, così, avevano deciso di non parlarsi “mai” più. Dopo aver mangiato, i bambini non si alzarono per gettare le cartacce al secchio, ma lasciarono direttamente tutto per terra: “Che me ne importa a me se l’aula si sporca!” diceva ogni bambino. “Tanto poi passa il bidello e pulisce!”, ma, in realtà, nessuno passava a pulire la classe da più di una settimana.
Durante le ultime ore, i bambini continuavano a non alzare la mano per esprimere la propria opinione, a rovinare gli arredi scolastici, a sporcare la classe e altre azioni indescrivibili. Ma anche i professori non rispettavano i loro doveri: il professor De Scansa Faticucci, l’insegnante di educazione civica, non voleva mai fare lezione, così se ne stava tutto il tempo seduto sulla sedia e con i piedi sporchi appoggiati sulla cattedra ad assegnare inutili compiti ai suoi alunni che poi non avrebbe nemmeno controllato o valutato. Poi c’era anche la professoressa Debolucci, l’insegnante di educazione fisica, che non aveva mai praticato uno sport in vita sua e, tuttavia, obbligava a fare dei giochi senza regole, lasciando vincere chi invece doveva perdere. Faceva fare ai suoi alunni quello che volevano: chi lanciava i palloni sul tetto, chi si picchiava, chi correva e si rompeva il ginocchio sull’ asfalto, chi scavalcava il muretto…
Alla fine della giornata scolastica, tutti i bambini tornavano a casa ripresi dai genitori che non facevano nemmeno una domanda ai figli su come fosse andata la giornata a scuola anche, quando uscivano da quest’ ultima col ginocchio dolorante o con le lacrime agli occhi. La scuola di Allegropoli è un posto che non consiglio a nessuno perché le regole possono anche sembrare fastidiose e inutili, ma, in realtà, non si può vivere in un mondo senza regole; perché in un mondo senza regole puoi trovare solo persone antipatiche e che pensano solo a loro stesse, proprio come nella città di Allegropoli: caotica, sporca, disordinata e dove le uniche persone che hanno voglia di rispettare le leggi e le regole, saranno costrette a trasferirsi o a vivere in un mondo pieno di ingiustizie.